Brexit: ora l’Unione Europea deve cambiare. L’alternativa è la sua disgregazione

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Unione-Europea-lItalia-non-cresce-ed-il-deficit-aumentaL’uscita traumatica di un Paese importante, anche se mai europeista convinto, come la Gran Bretagna, pone seri dubbi sul futuro dell’Unione, già reso complicato dall’elefantiasi dei suoi apparati, dalla poca elasticità dei suoi burocrati e dai contrasti fra i diversi interessi nazionali che ne minano l’unità a ogni piè sospinto.

La storia della Gran Bretagna nell’Unione è stata del resto travagliata fin dall’inizio. Il Regno Unito entrò nella Ue nel 1973, quando la quarta tornata di negoziati ebbe successo, dopo che per tre volte i colloqui si erano arenati per l’opposizione del Presidente francese Charles De Gaulle. Col 1° gennaio di quell’anno il Regno Unito, insieme a Danimarca e Irlanda, diventò membro effettivo dell’allora CEE. Ma gli inglesi hanno sempre continuato a creare dei distinguo, ad accettare solo in parte le regole comunitarie. Non fanno parte dell’euro (mantengono la sterlina) e hanno più volte imposto e ottenuto dall’Europa negoziati a loro favorevoli. È rimasta memorabile la richiesta di Margareth Thatcher del “giusto ritorno”, ossia la pretesa che l’ammontare dei fondi di investimento a favore del Regno Unito non fosse inferiore alla quota parte britannica al bilancio degli stessi.
Nel 1975, dopo soli due anni dall’ingresso, i sudditi di Sua Maestà si posero comunque già il problema se restare o meno in Europa. Sotto il governo laburista di Harold Wilson si tenne il primo referendum e vinse il SI’ con circa il 70% dei voti.

Infine, saltando molti altri passaggi, l’accordo stipulato a febbraio di quest’anno tra la Ue e il premier Cameron prevedeva molte agevolazioni al Regno Unito in cambio della vittoria di remain: si partiva dal riconoscimento di particolari deroghe alla libera circolazione dei lavoratori, anche comunitari, per arrivare fino a un sistema d’integrazione differenziata.

Che cosa accadrà adesso? Al di là delle conseguenze economiche e delle turbolenze nei mercati finanziari, che anche con l’intervento della Bce troveranno adeguata sistemazione, viene messo in pericolo soprattutto lo scenario politico. In molti Paesi alcune forze antieuropeiste chiedono già un referendum, in Francia, Italia, Olanda. Ci si chiede da molte parti se non si sia andati troppo avanti con l’integrazione europea solo sul piano economico (guidata dai poteri finanziari) senza sviluppare correlativamente l’unione politica, amministrativa e sociale. L’Ue a 28 era già diventata, ancor prima dell’abbandono inglese, un carrozzone ingovernabile, come dimostra il fallimento della politica comune d’immigrazione, che è stato una delle principali ragioni alla base del successo degli euroscettici in Gran Bretagna.

Per l’Italia e per gli altri paesi fondatori sarebbe forse più conveniente riorganizzare il malandato organismo europeo, tornando a un’Europa più snella e più gestibile (magari creando due gruppi di paesi, a doppia velocità, distinguendo fra paesi fondatori, con qualche aggiunta, e gli altri di più recente acquisizione). Un’Europa che tornasse ad essere guidata sostanzialmente dai sei Paesi che l’hanno creata con in più Spagna, Portogallo ed eventualmente Grecia, sposterebbe l’asse di potere verso l’area del mediterraneo e isolerebbe la ricca e furba Germania. Quest’ultima infatti finora l’ha fatta da padrona profittando di tutti i vantaggi derivanti alla sua economia dalle politiche Ue, favorevoli in buona parte ai paesi del Nord Europa. In questa situazione non è detto che anche le democrazie della penisola Scandinava, una volta uscita la Gran Bretagna, pur essendo sempre state al traino dei tedeschi, non decidano di sganciarsi dal carrozzone europeo.

Quanto alle prospettive immediate Cameron dovrebbe comunicare subito ai rappresentanti delle istituzioni europee la volontà del suo paese di lasciare l’Unione, e dare così il via – già in occasione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno – al negoziato con gli altri Stati membri per l’accordo sui tempi e nodi del ‘recesso’ di Londra dall’Unione. Che avverrebbe comunque, come prevede l’Art.50 del Trattato Ue, entro due anni. Da quel Consiglio europeo Matteo Renzi, che ha rinviato tutti gli incontri politici in sede nazionale, spera di uscire con l’aureola di leader motore dell’innovazione dell’Unione, una situazione da utilizzare a fini esclusivamente interni.

Ci saranno probabilmente riflessi anche sulle lingue ufficiali dell’Unione europea: se i 24 idiomi dei paesi UE sono accettati ovviamente tutti quali lingue di lavoro delle istituzioni europee, il francese e sopratutto l’inglese sono le due usate più di frequente nelle comunicazioni fra i Paesi e all’interno degli uffici comunitari. L’inglese è una lingua veicolare in tutto il mondo, è utilizzato dal 38 % degli Europei, risultando così la lingua più parlata in seno alla Ue. Non sarà dunque facile abolirne subito l’uso, ma dovrebbe essere incentivato lo studio di altre lingue, come ad esempio lo spagnolo, che sono altrettanto diffuse soprattutto a livello mondiale. Tanto che negli Stati uniti ormai la ripartizione spagnolo – inglese è ormai al 50% ciascuno.

Di tutti questi fattori si dovrà tener conto nella determinazione dei futuri equilibri dell’Unione, se si vuole veramente salvare un’istituzione che col passare del tempo ha mostrato crepe e rughe vistose. Non basteranno certo i propositi magniloquenti, le chiacchiere vane a recuperare la fiducia dei cittadini. Urge una decisione rapida se non si vuole che il vento della Brexit soffi anche negli altri paesi europei.

 

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