Secondo le regole del tempo, Dante Alighieri avrebbe avuto un giusto processo. Ma i dubbi restano a distanza di tanti secoli. Ma c’è una cosa che balza agli occhi: le accuse a lui rivolte, e che gli costarono la condanna all’esilio da Firenze, non erano pienamente fondate. Anzi, si trattò di infamie per allontanarlo dalla città, tirate fuori da invidiosi e avversari politici. Nulla di nuovo sotto il sole, i fiorentini sanno essere perfidi, soprattutto quando litigano fra loro.
Tutto questo è emerso dalla revisione del processo al Sommo Poeta, effettuata ieri,21 maggio 1921, a cinquecento anni dalla morte dell’Alighieri, in un evento online patrocinato dall’Ordine degli Avvocati e dal Comune di Firenze. All’iniziativa hanno preso parte anche Antoine de Gabrielli, discendente di Cante de’ Gabrielli da Gubbio, il podestà di Firenze, l’individuo che pronunciò l’esilio di Dante, e Sperello di Serego Alighieri, discendente del Poeta. A riaprire il caso è stato l’avvocato Alessandro Traversi, penalista fiorentino, che ha avviato il dibattito fra i giuristi, presieduto da Margherita Cassano, presidente aggiunto della Cassazione.
«Per le regole del tempo – ha detto Traversi – fu un giusto processo, celebrato secondo le regole vigenti, considerando che al tempo l’imputato contumace era equiparato a un reo confesso, ma anche dal modo troppo generico con cui vennero formulate le imputazioni, fra cui baratteria ed estorsione: a nostro parere si deve ritenere che queste accuse fossero non fondate, e viziate da un pregiudizio politico». Ecco qua: leggendo e rileggendo la storia della Firenze di Dante era facile, anche non essendo illustri penalisti, arrivare a queste conclusioni. Si volle allontanare Dante, perchè i fiorentini non amano, e temono, chi fra loro è più grande.
Ernesto Giusti