Don Milani “riletto”: la relazione di Betori. Quel prete non è più scomodo

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Pubblichiamo integralmente la relazione dell’Arcivescovo di Firenze, cardinale Giuseppe Betori, fatta oggi, 25 novembre 2023, a San Donato a Calenzano (FI) a conclusione del Convegno pastorale nell’ambito delle iniziative promosse dal Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario della nascita di don Milani (27 maggio 2023). Una relazione che dimostra il radicale cambiamento della Chiesa nei confronti di un prete che, ai suoi tempi, era definito "scomodo".

Con una piccola ma essenziale correzione rispetto al titolo presente
nel programma di questo Convegno, quanto mi appresto a dire non vuole
essere una riflessione concentrata su Esperienze pastorali, il testo che don
Lorenzo Milani pubblicò nel 1957, il primo e unico libro di cui egli si
presenta come autore, il libro cadde presto sotto gli strali dei settori più
retrivi del mondo cattolico, in specie romano, e provocò nel dicembre
1958 l’ingiunzione da parte dell’allora Sant’Uffizio di ritirarlo dal
commercio e di proibirne ogni ristampa e traduzione, proibizione decaduta
per volontà del Santo Padre Francesco solo nell’aprile 2014.

Quel libro è riferimento fondamentale per le riflessioni che vorrei condividere, ma
queste vorrebbero andare al di là del libro e riferirsi all’agire pastorale di
don Lorenzo, a Calenzano prima e poi a Barbiana, avendo come scopo –
come indica la seconda parte del titolo dell’intervento – di cogliere ciò che
tale agire dice alla Chiesa, e alla Chiesa del nostro tempo. Riflessioni – per
concludere questa nota introduttiva – che non hanno alcuna pretesa di
completezza e neanche di organicità, ma che vengono offerte soltanto come
spunti per una comprensione di don Milani nel suo rapporto con la Chiesa
nel concreto della vita pastorale, quella del suo e quella del nostro tempo.

Il primo dato che emerge nel considerare l’agire pastorale di don
Milani, così come egli lo descrive in Esperienze pastorali e così come
emerge dal suo epistolario in rapporto ai due luoghi del suo ministero
sacerdotale, è la parte preponderante che in esso assume la ricerca della
comprensione del contesto socio-culturale-religioso in cui quel ministero
deve svolgersi. Il punto di partenza per don Milani è assai meno un assunto
dottrinale da calare sulla realtà, quanto piuttosto una lettura approfondita
della realtà per individuare le risposte di verità che essa esige.

Siamo nel pieno di quel rapporto tra il reale e le idee che Papa Francesco ha
codificato nell’Evangelii gaudium nel principio per cui «la realtà è
superiore all’idea. Questo implica – spiega il Papa – di evitare diverse
forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del
relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i
fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi
senza saggezza» (n. 231). Questo approccio ha la chiara funzione di
rifiutare ogni ideologismo, senza peraltro rifiutare la funzione del pensiero
come strumento di comprensione. Continua infatti il Papa: «L’idea – le
elaborazioni concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e
dirigere la realtà. L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e
nominalismi inefficaci» (n.232), per concludere poi nell’indicare il
fondamento teologico di questo approccio nel mistero dell’incarnazione:
«La realtà è superiore all’idea. Questo criterio è legato all’incarnazione
della Parola e alla sua messa in pratica: “In questo potete riconoscere lo
Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è
da Dio” (1 Gv 4,2).

Il criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che
sempre cerca di incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione» (n. 233). Non
ritengo di fare un passo indebito nel dire che don Milani si sarebbe
ritrovato a casa sua in questa prospettiva che il Papa ci offre. Lo stesso don
Milani, a proposito di Esperienze pastorali, scriveva ad Arturo Carlo
Jemolo, contestando la recensione che ne aveva fatto l’illustre studioso dei
rapporti tra Stato e Chiesa: «Il mio libro è un documento eccezionale
perché capovolge il punto di vista abituale. Invece di vedere la cosa
dall’alto dei principi la mostra vista dal basso della piccola prassi
parrocchiale là dove però c’è le cose più grandi per noi cristiani
(l’individuo, i Sacramenti)» (Lettera a Arturo Carlo Jemolo, 7.9.1958: Don
Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 540).

Il modo con cui don Milani vive questo ancoraggio forte alla realtà,
alla storia, è anzitutto connotato dallo sforzo di raggiungere una
comprensione di essa che sfugga all’emotività, alla sensazione,
all’approssimazione, tanto meno all’opinione prevalente, ma si affidi agli
strumenti di analisi dei processi culturali e sociali, inclusi quelli religiosi,
che vengono offerti dalle scienze umane. Le pagine di Esperienze pastorali
sono piene di tabelle, grafici, numeri che introducono a una lettura del reale
non epidermica ma oggettivata in dati quantitativi, che danno consistenza alle conclusioni qualitative offerte per i diversi soggetti presi in
considerazione: casa, lavoro, migrazioni, istruzione, ma anche catechismo,
sacramenti, devozioni, ecc.
È aperta la discussione tra gli studiosi su quanto, in questo modo di
porsi di fronte alla vita pastorale, don Milani abbia attinto dalla sociologia
religiosa francese contemporanea, che pur non gli era ignota. Ma c’è
un’originalità nel prete fiorentino che emerge con evidenza ed è la
connessione che, attraverso queste analisi, egli stabilisce tra la
consapevolezza dei mutamenti sociali in atto e la risposta che l’istituzione
ecclesiale deve offrire sul piano della salvaguardia della dignità della
persona favorendo l’accesso all’esercizio della parola per aprire a una
consapevole esperienza religiosa.

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Lettura attenta, perfino scientifica, della realtà, dunque, oltre ogni
approssimazione e ogni cortocircuito ideologico, che si genera quando la
dottrina piove sul reale senza la mediazione della comprensione di esso,
con il tentativo di ingabbiare la vita nell’idea e non invece di incarnare la
Parola nella vita compresa nei suoi interrogativi e nelle sue attese.
A questo sguardo concentrato sul presente, che va accostato
all’invito evangelico a «interpretare i segni dei tempi» (Mt 16,3), don
Milani, nella sua prassi pastorale, accosta un altro sguardo, rivolto questo
alla storia, in concreto alla storia di Gesù. Colpisce anzitutto questo
concentrarsi della proposta di fede sul mistero cristologico.

Ciò che conta nella fede per don Milani è tutto nella persona di Gesù, in quanto in lui si
ha accesso al mistero del Padre e dello Spirito e in quanto è lui che nello
Spirito è l’anima del soggetto storico della Chiesa. Radice trinitaria e
presente salvifico hanno in Gesù la loro cerniera, e nella conoscenza di lui
si ha quindi modo di entrare nella totalità del mistero della fede. Potremmo
riconoscere in questo approccio una fondamentale sintonia con la svolta
cristologica che ha segnato i più recenti sviluppi della ricerca teologica.
Ma, a questo, don Milani aggiunge un’ulteriore connotazione
dell’approccio al mistero di Cristo, la via storica. Le schede, elaborate tra il
1948 e il 1952, che formano Il Vangelo. Lezioni di catechismo, non
giunsero mai a una formulazione compiuta – e don Milani per questo
motivo aveva chiesto, prima di morire, che fossero distrutte –, mancando
peraltro anche delle ultime tre, ma sono un esempio concreto di
quell’Insegnamento del catechismo su uno schema storico, che era il titolo di un articolo che don Milani redasse nel 1950 ma che non venne mai
pubblicato, in cui egli offre i fondamenti culturali e teologici dell’approccio
storico ai contenuti della fede, un approccio che lo pone nella scia del
rinnovamento biblico che preparò e accompagnò il Concilio Vaticano II,
condividendo l’impostazione storico-critica della lettura dei testi. Non sto
qui a esaminare queste Lezioni di catechismo che altri, e con ben altre
competenze hanno aiutato a comprendere nella loro genesi e nelle loro
finalità. A me basta, nel nostro contesto, evidenziare come nella visione
pastorale di don Milani il centro propulsore della comunicazione della fede
debba essere l’incontro con la persona di Gesù Cristo colto nella
concretezza della sua vicenda storica, in cui si incarna il suo mistero e ne
diventa pertanto la porta d’accesso ineludibile.

Quale sia la meta che ci si attende da tale incontro con la figura di
Gesù è variamente esplicitato da don Milani, in specie nel suo epistolario,
come la possibilità offerta alla persona umana di riappropriarsi della
propria dignità, variamente lesa dalle condizioni sociali ma anche dalla
stessa comunità cristiana, ridotta nel suo apostolato alla ripetizione di
pratiche religiose, poco comprese dal popolo e private del loro stesso
significato religioso. Di qui la scelta di orientare l’intera azione pastorale
nel porsi al servizio della riappropriazione della parola, strumento
necessario per la comprensione delle vicende umane e dei misteri della
fede. In tal senso, sia la scuola popolare a Calenzano sia la scuola di
Barbiana non si presentano come un’azione di supporto sociale ma come il
luogo della presa di coscienza della propria soggettività personale da parte
di chi ne veniva coinvolto.

Dirà Papa Francesco a Barbiana: «Ridare ai poveri la parola, perché senza la parola non c’è dignità e quindi neanche libertà e giustizia: questo insegna don Milani. Ed è la parola che potrà
aprire la strada alla piena cittadinanza nella società, mediante il lavoro, e
alla piena appartenenza alla Chiesa, con una fede consapevole» (Discorso
in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo Milani, Barbiana 20
giugno 2017). Sono parole in cui possiamo riconoscere una compiuta
sintesi delle finalità in cui si muove la pastorale di don Milani e che, in
condizioni mutate ma parimenti urgenti, hanno significato ancora oggi, in
tempi in cui non è forse la mancanza della parola a ostacolare la pienezza
dell’umano ma sì la confusione delle parole, il rumore di fondo della comunicazione sociale che disorienta e ostacola anche oggi l’esercizio
personale della coscienza e quindi, pur sempre, la libertà e la giustizia.
Entrare in questo percorso personale di riappropriazione del sé civile
e religioso non potrà mai essere un fenomeno di massa, ma il frutto di
relazioni vitali, nel rapporto da persona a persona, quello tra maestro e
allievo e poi quello dei discepoli tra loro.

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Il rapporto si regge ovviamente sulla trasmissione di saperi e sulla loro condivisione, come si evidenzia
nella scrittura condivisa da cui nascono già le schede del catechismo e poi
Lettera a una professoressa, ma ha soprattutto una connotazione di
implicazione personale. Essa darà luogo a espressioni del priore a caratteri
forti, a cominciare dalla ben nota: «Ho voluto più bene a voi che a Dio, ma
ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto
al suo conto» (Lettera a Michele, Francuccio Gesualdi e ai ragazzi,
1.3.1966: Don Milani. Tutte le opere, vol II, Mondadori 2917, p. 1251).

Ma la compromissione personale non si regge sugli affetti o soltanto su di essi,
bensì sulla responsabilità che si ha verso l’altro. Potremmo chiamarlo il
dovere della testimonianza. Don Milani preferì un’espressione che veniva
dal nuovo mondo: I Care.

Una frase che spesso viene ricondotta all’impegno sociale che deve trovare spazio in una vita umana compiuta. Ma non è privo di significato che il cartello in cui si legge questo motto
nella stanza in cui la scuola di Barbiana svolgeva la sua attività nella
canonica fosse affisso sulla porta della camera del priore, a dire che
l’impegno ad avere a cuore, a prendersi cura, era anzitutto suo, di don
Milani, ed era rivolto anzitutto a quel concreto gruppo di ragazzi che
avevano accolto il suo appello a crescere nella loro dignità umana e
cristiana.

Relazione personale e testimonianza, presa in carico dell’altro e
dedizione di sé rappresentano note dell’esperienza pastorale di Calenzano e
di Barbiana che hanno molto da dirci oggi, in una situazione ecclesiale in
cui tutto l’apparato organizzativo e le pianificazioni pastorali mostrano la
loro inadeguatezza nel tumultuoso cambiare dei tempi e ci resta solo lo
sguardo posato sull’altro, la mano tesa a stringere quella dell’altro, la
consapevolezza che la fede passa dall’incontro tra persona e persona, da
cuore a cuore, in quanto ciascuno si fa testimone della presenza di Cristo
per l’altro; da persona a persona per condurre alla persona di Gesù, poiché,
come ci ha ricordato Benedetto XVI «all’inizio dell’essere cristiano non c’è
una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione
decisiva» (Deus Caritas est, n. 2).

Lo snodo personale, umano, tra gliumani, e umano-divino, tra noi e Cristo, è essenziale al percorso di fede. Unitamente alla dimensione personale la prassi pastorale che don
Milani ci propone esige una forma strettamente comunitaria. Non ci si
salva da soli, non si salvano anime, ma la rigenerazione dell’umano in
Cristo passa attraverso la concretezza della persona nella sua interezza
anche corporea, e quindi delle sue esigenze sociali, e quindi della sua
appartenenza a un popolo, a una concreta comunità.

Di qui l’attenzione ai processi sociali – in quel tempo in particolare alle trasformazioni legate al
passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale – e alle loro
conseguenze sul vissuto del popolo e in particolare alla tenuta dei legami
comunitari per difenderli da poteri invasivi e prevaricatori; ma anche
l’attenzione alle condizioni ecclesiali, in cui il rapporto tra esercizio
dell’autorità e costruzione di vincoli comunionali era percorso ancora da
forti divaricazioni, di cui lo stesso priore non da ultimo fu vittima e che egli
soffrì con profonda amarezza. Lo testimonia bene una lettera di don Milani
all’allora Vicario Generale mons. Giovanni Bianchi: «Mi meraviglio che
lei dopo la sua visita qui non abbia ancora capito che i miei ragazzi e io ci
sforziamo quotidianamente di vivere in una elevata atmosfera di dedizione
al prossimo, di problematica religiosa, morale, politica, culturale a alto
livello» (Lettera a mons. Giovanni Bianchi, 20.10.1963: Don Milani. Tutte
le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 942).
Il vissuto comunitario a Barbiana per don Milani e i suoi ragazzi
prese la forma di una comunità di vita che ha caratteri legati al luogo e alle
persone, ma resta per tutti l’esigenza di esprimere la natura comunitaria
dell’esperienza di fede in forme non ideali ma concrete.

Parole del priore: «Quando avrai perso la testa, come l’ho persa io, dietro poche decine di
creature, troverai Dio come un premio» (Lettera a Nadia Neri, 7.1.1966:
Don Milani. Tutte le opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 1220).
Nell’attenzione alla società e alla comunità un posto prioritario va
riservato secondo don Milani agli ultimi, a chi è ai margini, agli umili. Lo
segnala un’altra frase ben nota di don Milani e dei suoi ragazzi, che nel
denunciare una situazione indica anche un obiettivo: «Perché non c’è nulla
che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra diseguali» (Lettera a una
professoressa, L.E.F. 1967, p. 55: Don Milani. Tutte le opere, vol I, Mondadori 2017, p. 727). Se c’è una diseguaglianza c’è un vuoto da colmare, c’è un’attenzione da privilegiare, c’è una povertà da redimere.

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«Dalla nostra fede in Cristo fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli
esclusi, deriva la preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più
abbandonati della società» ha scritto Papa Francesco (Evangelii gaudium,
186). E ancora: «Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria
teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio
concede loro la sua prima misericordia. Questa preferenza divina ha delle
conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli
stessi sentimenti di Gesù” [Fil 2,5]» (Evangelii gaudium, 198). Farsi carico
delle povertà, nelle diverse e sempre nuove forme che esse rivestono, farsi
carico concretamente dei poveri è un agire storico che non si colloca per sé
su un piano di intervento sociale, ma appartiene a una fede che voglia
essere conformazione a Cristo

A questa privilegiata attenzione ai poveri si collega un’altra
dimensione della pastorale di don Milani, quella che la caratterizza come
fortemente legata ai risvolti sociali della verità evangelica. Lo stesso
impegno sindacale e politico a cui educa i suoi ragazzi è visto non come un
elemento accessorio della loro formazione cristiana, ma come il riflesso
nella società di una visione della persona e dei suoi legami sociali che ha le
sue radici nel Vangelo Scrive in Esperienze pastorali: «Non vedremo
sbocciare dei santi finché non ci saremo costruiti dei giovani che vibrino di
dolore e di fede pensando all’ingiustizia sociale» (Don Lorenzo Milani,
Esperienze pastorali, LEF 1957, p. 241: Don Milani. Tutte le opere, vol. I,
Mondadori 2017, p. 269s).
Un ultimo carattere mi preme segnalare dell’attitudine pastorale di
don Milani che deve interrogarci. Il suo stare saldamente nella Chiesa, ma
con una libertà e una sincerità che, non sempre comprese al suo tempo e
anzi foriere di contrasti e accuse dolorose, costituiscono il duplice volto di
una radicale fedeltà. La sua voce scomoda non era tale in forza di una
volontà di critica verso la Chiesa, ma il frutto di un amore che si nutriva di
verità. Il suo stesso confronto con il Vescovo assume anche toni aspri, ma è
guidato dal non voler far mancare al suo pastore la verità e voler costruire
insieme la comunione.

Non chiedeva infatti altro che il riconoscimento dell’ecclesialità del suo percorso. È ben nota la lettera inviata al cardinale Ermenegildo Florit da un don Lorenzo ormai gravemente malato: «Vuole ereditare la mia umile opera? vuole mietere dove io ho seminato? vuole
partecipare all’abbraccio affettuoso dei poveri che mi vogliono bene, che
ho tentato di avvicinare al Signore […]? Le propongo una soluzione
pratica. Mi inviti lei personalmente a tenere delle lezioni o conversazioni di
pratica pastorale al Seminario Maggiore. Non le chiedo di dire ai
seminaristi e ai miei due infelici popoli che questa mia è la santità, che
questa è la ricetta unica dell’apostolato, che tutto il resto è errore.

Le chiedo solo di dire ai seminaristi e ai miei due infelici popoli che nella Casa del
Padre mansiones multae sunt e che una di esse generosa e ortodossa fino
allo spasimo è stata quella del prete che ella ha fino ad oggi
implacabilmente insultato e lasciato insultare». (Lettera all’arcivescovo
card. Ermenegildo Florit, 5.3.1964: Don Milani. Tutte le opere, vol. I,
Mondadori 2017, p. 269s).

Questo riconoscimento è ciò che a cinquant’anni dalla morte venne a offrire Papa Francesco a Barbiana: «Il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più
volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e
compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione
pastorale» (Discorso in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo
Milani, Barbiana 20 giugno 2017).

Questo legame di appartenenza alla Chiesa fortemente rivendicato da
don Lorenzo era legato alla chiara coscienza che non dal consenso del
pensiero egemone ma solo dalla misericordia della Chiesa poteva ricucire
le ferite della vita. Lo affermava con chiarezza: «Non mi ribellerò mai alla
Chiesa, perché ho bisogno più volte alla settimana del perdono dei miei
peccati e non saprei da chi altri andare a cercarlo quando avessi lasciato la
Chiesa» (Lettera a p. Reginaldo Santilli, 10.10.1958: Don Milani. Tutte le
opere, vol. II, Mondadori 2017, p. 567).

Come Papa Francesco, siamo conviti che questa sofferta ma radicale
fedeltà ecclesiale poteva scaturire solo da una fede altrettanto radicale nel
Signore Gesù. Concludo pertanto con le parole di Papa Francesco a
Barbiana: «La dimensione sacerdotale è la radice di tutto quello che [don
Lorenzo Milani] ha fatto. Tutto nasce dal suo essere prete. Ma, a sua volta,
il suo essere prete ha una radice ancora più profonda: la sua fede. Una fede
totalizzante, che diventa un donarsi completamente al Signore» (Discorso
in occasione della visita alla Tomba di don Lorenzo Milani, Barbiana 20
giugno 2017).

Cardinale Giuseppe Betori

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