La Cassazione ha escluso che il termine «omosessuale» abbia conservato nel presente contesto storico un significato intrinsecamente offensivo come, forse, poteva ritenersi in un passato nemmeno tanto remoto». I supremi giudici, nell’annullare senza rinvio la decisione del giudice di pace di Trieste «perché il fatto non sussiste» (si trattava di una multa per il reato di diffamazione inflitta ad un sessantenne che aveva dato dell’«omosessuale» ad un altro), spiega che «a differenza di altri appellativi che veicolano il medesimo concetto con chiaro intento denigratorio secondo i canoni del linguaggio corrente, il termine in questione assume un carattere di per sé neutro, limitandosi ad attribuire una qualità personale al soggetto evocato ed è in tal senso entrato nell’uso comune».
La quinta sezione penale afferma che «è da escludersi che la mera attribuzione della suddetta qualità – attinente alle preferenze sessuali dell’individuo – abbia di per sè un carattere lesivo della reputazione del soggetto passivo e ciò tenendo conto dell’evoluzione della percezione della circostanza da parte della collettività, quale che sia la concezione dell’interesse tutelato che si ritenga da accogliere». La Procura generale invece aveva sollecitato la conferma della condanna.