Banche: Padoan ha chiesto nuovi prestiti (15 miliardi?) all’Europa per salvare gli istituti in difficoltà

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Renzi e PadoanLa parola d’ordine di Renzi era: prima del referendum niente cattive notizie, gli italiani sicuramente avranno fiducia in me, ma meglio non spaventarli con notizie drammatiche. Il piano B del Tesoro per risolvere il problema banche era sui tavoli della Commissione europea da mesi, ma finora era prevalsa la ragion politica. Il caso Etruria, le pesanti conseguenze sui soci della trasformazione delle due popolari venete in società per azioni, il timore di dover rispondere all’opinione pubblica del salvataggio di una banca toscana avevano frenato la diffusione della notizia.

Il premier dunque ha rinviato appositamente il redde rationem sapendo che il costo della decisione sarebbe stato troppo alto, a partire dal taglio delle obbligazioni subordinate come previsto dalle nuove regole Ue. La vittoria del no e le dimissioni hanno fatto uscire alla luce la verità. Non c’è solo Mps, distrutta da anni di malgoverno e con il più alto tasso di crediti deteriorati d’Europa. Il tentativo di Jp Morgan di trovare una soluzione di mercato sta naufragando sotto i colpi dell’incertezza politica e la richiesta del numero uno Marco Morelli di avere dalla Banca centrale europea il sì ad una ulteriore dilazione del piano non andrà in porto. Del resto la lista degli istituti in difficoltà è lungo: Etruria, Banca Marche, Carichieti, Cariferrara, di fatto fallite un anno fa e rimaste invendute. Le già citate Popolare di Vicenza e Veneto Banca, finora tenute in vita dal Fondo Atlante. E ancora Ubi, con troppi crediti deteriorati per potersi fare carico dell’acquisto delle suddette banche, o il caso Carige. Insomma, un intervento dello Stato per mettere in sicurezza l’intero sistema sembra inevitabile. Il mercato ci crede, e non a caso ieri la Borsa di Milano e i titoli bancari sono volati.

Il decreto a cui lavora il Tesoro vale ben di più dei tre-cinque miliardi invocati al mercato per Siena, e al momento non prevede l’intervento diretto dello Stato, bensì quello dell’Europa attraverso il fondo Salva-Stati Esm. La cifra in ballo indicata da due fonti concordanti del Tesoro, secondo indiscrezioni colte da La Stampa di Torino, sarebbe addirittura di 15 miliardi di euro.

Lo schema da applicarsi si rifarebbe a quello applicato dalla Spagna nel 2012 per evitare il crac degli istituti iberici e che il governo Monti allora rifiutò. L’Europa in quel caso sborsò quaranta miliardi che furono trasferiti a un Fondo nazionale. La richiesta italiana vale meno della metà di quello spagnolo, e di per sé conferma la delicatezza della scelta. I fondi dell’Esm sono formalmente un prestito e per questo comportano la firma di un accordo con l’Europa che impone quelle che nel gergo tecnico si chiamano «condizionalità».

Nel caso della Spagna riguardarono il risanamento e la governance delle banche oltre alle scelte di politica economica: al governo Rajoy fu chiesto di rispettare un obiettivo di deficit per il 2014 del 2,8 per cento. All’Italia, già sotto osservazione per la manovra 2017, potrebbe costare la richiesta di una correzione o quantomeno di una legge di bilancio nel 2018 ben più severa di quella approvata quest’anno. In ogni caso si dovrà provvedere entro la fine dell’anno, perché dopo di allora la Bce non concederà più dilazioni per Etruria. Nel decreto ci dovrebbero essere quindi garanzie per gli obbligazionisti subordinati, che verrebbero almeno in parte rimborsati. Chiudere l’accordo con Bruxelles non sarà facile, anche se l’esempio spagnolo ci incoraggia: Rajoy se ne guardò bene dal rispettare le richieste europee e il deficit risultò il doppio di quello promesso.

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