Pensioni d’oro: secondo il direttore dell’Inps il ricalcolo contributivo è improponibile

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Un duro colpo ai progetti di Tito Boeri, del Governo e di qualche politico d’intervenire pesantemente sugli assegni d’oro viene proprio dall’Interno dell’Inps, l’Ente previdenziale presieduto dall’economista bocconiano. Nel quadro delle audizioni dedicate al progetto di legge – firmato da Giorgia Meloni (FdI) in discussione alla Camera dei Deputati (AC 1253) in commissione Lavoro, sul tema degli interventi per le pensioni d’oro – è stato sentito il direttore per la previdenza dell’Inps, Antonello Crudo. Si tratta cioè dell’esperto più informato e accreditato in materia, quello che ha sotto mano dati e regolamenti che presiedono a questo complicato settore. Ebbene Crudo ha sostanzialmente bocciato da un punto di vista tecnico la possibilità di attuare il ricalcolo in chiave contributiva delle prestazioni attualmente erogate dall’Inps nei confronti dei cosiddetti pensionati d’oro. Dunque, a detta del direttore, anche se ci fosse una determinazione politica d’intervenire per ricalcolare col sistema contributivo tutte le attuali pensioni, l’Inps non avrebbe gli strumenti utili per realizzarlo.

RICALCOLO – Crudo ha indicato che in un certo numero di casi il ricalcolo potrebbe portare ad aumentare l’assegno anziché tagliare l’importo delle pensioni perché nel sistema retributivo ci sono aliquote di rendimento dei contributi decrescenti al salire delle retribuzioni. Inoltre il ricalcolo potrebbe non avere effetti per i lavoratori che hanno avuto retribuzioni importanti ad inizio a carriera, poi diminuite a causa della crisi dato che nel retributivo si tengono conto solo degli ultimi anni di carriera lavorativa nella quantificazione dell’assegno. Il sistema retributivo – ha detto Crudo – contiene in sé un forte meccanismo solidaristico di riequilibrio che consiste nel fatto che il cosiddetto coefficiente di rivalutazione annua della pensione quando i redditi superano i 45.000 euro scende al di sotto del 2% sino a ridursi allo 0,9 per cento per redditi superiori a 90.000 euro.

RETRIBUZIONI – In sostanza chi ha percepito in passato redditi alti non può raggiungere l’80% della base retributiva, come chi vantava retribuzioni inferiori a 45mila euro annui e 40 anni di contributi, ma cifre oscillanti tra il 40 e il 50%, un meccanismo redistributivo in grado di compensare gli eventuali effetti di promozioni molto generose ottenute, tipicamente nel pubblico, negli ultimi anni di lavoro. Il passaggio al contributivo, oltre ad annullare tale effetto, comporterebbe anche la valorizzazione delle anzianità contributive versate in eccedenza del 40° anno di servizio, ipotesi non remota per chi ha rivestito posizioni di dirigenza sino al 70° o addirittura a 75° anno potendo vantare limiti ordinamentali di servizio molto più elevati rispetto ai lavoratori normali. E dato che nel contributivo non c’è il tetto di anzianità a 40 anni in sostanza le pensioni di questi soggetti potrebbero addirittura aumentare se si procedesse nel senso indicato dalla Meloni.

STORIA CONTRIBUTIVA- A parte queste osservazioni, conseguenze più che altro del confronto tra i due sistemi di calcolo, Crudo ha affermato che sarebbe molto complesso ricostruire la storia contributiva delle pensioni liquidate molti anni fa, in particolare prima del 1992 e nel settore pubblico, perché non ci sono archivi informatici e la pensione si calcolava su una quota dell’ultima retribuzione. Ci sarebbe quindi il rischio di un diffuso contenzioso, e inoltre le risorse umane a disposizione dell’Inps per lo svolgimento di queste operazioni sono risibili. Soprattutto in questo periodo in cui l’istituto deve conformare i propri sistemi operativi alle innovazioni prodotte dal Jobs Act che ha riformato il sistema degli ammortizzatori sociali.

La posizione di Crudo conferma che la proposta esaminata in sede parlamentare, così come quella che intenderebbe realizzare il suo capo Tito Boeri, che però recentemente sembra aver innestato la retromarcia, costituirebbe soltanto un’operazione demagogica, che produrrebbe pochi risparmi, nell’ordine di qualche centinaia di milioni di euro. Speriamo dunque che anche questo fattore, chiamamolo così, squisitamente tecnico, contribuisca a far rinfoderare le armi ai nemici giurati delle pensioni d’oro che, come nel caso della Meloni, dovrebbero piuttosto occuparsi dell’abolizione dei privilegi (ad esempio vitalizi) di cui gode la classe politica, di cui anche lei fa parte. Ma ci speriamo poco.

 

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