L’accordo di Malta tra i partner dell’Ue fatica a decollare, appesantito dall’esplodere del caso della rotta balcanica, che ora preoccupa con dati di arrivi record in Grecia e a Cipro, indicatori di una possibile nuova crisi migratoria. La discussione sul Mediterraneo centrale però continuerà nei prossimi giorni – una riunione a livello tecnico è già prevista per venerdì, a Bruxelles – e la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, punta a chiudere sul coinvolgimento del maggior numero di Paesi possibile per novembre-dicembre, anche se ha spiegato: «c’è già in qualche modo l’attuazione dell’intesa perché i migranti sbarcati dalle navi delle ong vengono ripartiti». Ma solo sulla carta, per ora restano tutti sul gobbo degli italiani.
Intanto il presidente Sergio Mattarella che durante la sua visita in Danimarca – Paese non favorevole alla ridistribuzione – ha misurato di persona la distanza sul dossier, ha ammonito: “Quello dei migranti è un problema che bisogna governare. Non si può far finta di rimuoverlo”. Belle parole, ma senza alcun effetto.
D’altra parte sulle adesioni degli Stati – a differenza della ministro francese degli Affari europei Amelie de Montchalin, che parla di un gruppo ora allargato a dieci – il capo del Viminale ha preferito non sbilanciarsi. Oggi «non do numeri, ha affermato. Quelli che hanno detto di sì sono quei tre o quattro Stati che avevano già dato la loro disponibilità, tipo Lussemburgo, e Irlanda. Ma bisogna lavorare perché l’accordo abbia una valenza più ampia», ha insistito.
Il collega Jean Asselborn ha confermato la partecipazione, sottolineando l’aspetto politico della vicenda: “Sono contento del cambiamento in Italia, questo è molto positivo, e non si può lasciare l’Italia esposta”. Anche il tedesco Horst Seehofer su nuovi coinvolgimenti si è mantenuto vago, ha parlato di “cinque-sei Paesi che hanno dimostrato simpatia per il piano, ma aspettano di conoscere più dettagli, tra questi Romania, Croazia, Estonia, Portogallo”. E il bavarese, finito sotto attacco della leader della Cdu Annegret Kramp-Karrenbauer preoccupata per un possibile pull factor, ha avvertito che nel caso vi fosse ad «un servizio taxi tra l’Italia e la Libia, la Germania è pronta ad uscire». Un’affermazione nata anche dalle preoccupazioni manifestate da più Stati membri al dibattito.
Ma se l’Italia ha numeri di arrivi molto bassi (merito della gestione Minniti – Salvini), e una questione soprattutto politica, la Grecia, con 11.500 nel solo mese di settembre ha fatto registrare un dato record dall’entrata in vigore dell’accordo Ue-Turchia.
A riprova dell’emergenza anche le statistiche diffuse dall’Agenzia europea di sostegno all’Asilo (Easo). Cipro con quasi 9000 richieste; Malta con poco meno di 4mila; e la Grecia con oltre 3mila figurano in testa alla classifica dell’Unione per prime domande d’asilo, per milione di abitanti, tra gennaio e luglio, mentre l’Italia è al 16mo posto, con solo alcune centinaia. Punto sottolineato da più di un ministro alla riunione, dove non sono mancate posizioni nettamente contrarie, come quelle dei quattro Paesi Visegrad.
Per tornare a frenare i flussi la Turchia chiede un miliardo di euro per il 2020. Un punto che sarà trattato anche al summit dei leader della prossima settimana. Ma a questo si aggiunge anche lo scenario preoccupante di una possibile operazione militare di Ankara contro le milizie curde nel nord-est della Siria, con una potenziale ondata di migliaia di nuovi profughi pronti a bussare alle porte dell’Unione, mettendo di nuovo a repentaglio non solo quel che resta dell’area Schengen, ma anche la sopravvivenza della stessa Ue, dilaniata da tempo sul problema.